Fast fast fast fashion: "Wear me baby one more time!"

Dal punto di vista economico, l'industria tessile è uno dei settori più importanti al mondo con un valore pari a 1.3 trilioni di dollari all'anno [1]. In Europa, secondo le stime della Commissione Europea, il settore genera un fatturato pari a 160 miliardi di Euro all'anno ed impiega oltre 1,5 milioni di persone con circa 160.000 aziende del settore [2].

Il settore tessile è anche tra i più inquinanti al mondo e si trova al 4° posto, dopo l'alimentazione, l'alloggio e la mobilità. Questo primato negativo si deve, soprattutto, ad un raddoppio della produzione dell'ultimo decennio, così come alla nascita del nuovo settore della moda, ovvero "fast fashion". Il termine è caratterizzato dalla vasta produzione di collezioni in breve tempo, con materiali di media-bassa qualità, ad un prezzo basso e quindi molto accessibile. Infatti, questo accesso quasi illimitato ai vestiti a prezzi contenuti, ha portato ad una diminuzione della durata media dei capi di abbigliamento, perché diventa molto più facile acquistare qualcosa di nuovo per essere "alla moda" piuttosto che indossare un vestito diverse volte oppure ripararlo. La Commissione Europea riporta che ogni capo d'abbigliamento viene sostituito dopo circa 12 mesi [1].

Inoltre, la quantità di abbigliamento prodotta supera alla lunga la richiesta dei clienti. Si stima, infatti, che attorno a 85%, rimane invenduta nei grandi negozi di moda. Certo, fashion outlet oppure le svendite di fine stagione, aiutano a vendere una parte importante di questi vestiti, ma, tuttavia, una rimanenza viene spedita in paesi in via di sviluppo, come appunto Cile oppure Ghana, dove questi vestiti vengono rivenduti a prezzi ancora più bassi. Quello che invece non può essere venduto, va a finire in una discarica a cielo aperto, come appunto quella del deserto di Atacama (attualmente la discarica dei vestiti più grande al mondo - ndr) [2].

Bisogna sottolineare, a questo punto, che anche il commercio online ha influito ad aumentare la quantità di vestiti che vengono mandati in discarica, In particolare, i resi gratuiti offerti dalle aziende con l'obiettivo di aumentare le vendite hanno creato un effetto boomerang dove una importante quantità di vestiti ordinati online vengono restituiti, aumentando ulteriormente l'importa ambientale di un singolo vestito.

Maggiore consapevolezza: Overdressed e JUNK

I dati sopramenzionati sono preoccupanti. Infatti, a partire dagli anni '80, ha iniziato a diffondersi una controtendenza, ovvero una nuova forma di creare ed indossare i vestiti, orientata al supporto degli artigiani locali ed utilizzo dei materiali eco-sostenibile, chiamata "slow fashion". L'importanza del movimento è stata rafforzata dopo la famosa pubblicazione di Elizabeth Cline ("Overdressed: The shockingly high cost of cheap fashion"), che ha aumentato la consapevolezza e portato alla luce i danni che l'industria del fast fashion stava creando all'ambiente [3]. Pochi mesi fa è stata pubblicata la docuserie "JUNK, Armadi pieni", realizzata da Will Media e Sky Italia, che porta alla luce i danni irreparabili creati dalla moda di fast fashion in Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India ed Italia, con l'obiettivo di far capire che esiste ancora una via d'uscita, ma che siamo decisamente anche noi, come consumatori, i protagonisti del cambiamento [4].

Sicuramente, la consapevolezza verso i materiali di origine naturale, come cotone, lino, canapa, ma anche bambù ed eucalipto, può essere un ulteriore passo verso un settore tessile più sostenibile. In particolare, il tessuto di canapa, grazie alla sua resistenza ai parassiti e quindi l'assenza di pesticidi nel ciclo di crescita, così come le sue ottime proprietà termoregolatori e traspiranti, rendono questo tessuto un alleato ideale per tutti coloro che sono disposti di cambiare il proprio abbigliamento ed avvicinarsi ad una moda più lenta, ma soprattutto più sostenibile.

Questa nuova consapevolezza sta cambiando il paradigma della moda, e quindi, nell'ultimo periodo, sempre più consumatori basano le loro scelte d'acquisto non soltanto sull'esteticamente "bello ed in moda", ma seguendo anche dei criteri di una produzione più sostenibile, che deve, necessariamente, essere presente in tutte le fasi produttive. Si tratta appunto di una moda orientata all'uso di materie prime meno inquinanti, riduzione degli sprechi durante la fase di produzione, che offre buone condizioni di lavoro e stimola un consumo consapevole di abbigliamento (un punto venuto alla luce con la tragedia di Rana Plaza del 2013, e poi rafforzato dallo slogan "I made your cloths")[5]. L'obiettivo finale consiste quindi nel favorire la nascita dei brand che creino indumenti durevoli nel tempo, sostenibili e che garantiscono uno stipendio dignitoso. Infatti, negli ultimi anni, sempre più aziende hanno iniziato a re-adattare la propria produzione.

Come misurare l'impatto ambientale dell'industria tessile?

L'impatto ambientale dell'industria della moda, ormai impossibile da ignorare, sta portando alcuni segmenti dell’industria della moda contemporanea ad adeguare il proprio processo produttivo. Tale processo, però, risulta costoso, così come anche la procedura stessa atta alla misurazione delle cosiddette “performance di sostenibilità” dell’industria tessile. Inoltre. il processo di misurazione dovrebbe poi essere anche di utilizzo immediato anche per i consumatori, che necessariamente dovranno effettuare una comparazione delle performance tenute dalle diverse aziende. In generale è comunque possibile far riferimento a due indici costruiti a livello internazionale come per esempio:

1.    Higg Materials Sustainability Index;

2.   Carbon Footprint di Prodotto.

Il primo indice di performance sociale ed ambientale è stato lanciato nel 2012 nel contesto di un progetto chiamato “Sustainable Apparel Coalition” – Coalizione per l’Abbigliamento Sostenibile. Il suo scopo è quello di verificare a quanto ammonti l’impatto ambientale del brand o anche di un singolo prodotto inserito all’interno di una specifica collezione.  L’indice in questione appare essere valido dal momento che ha proposto, prima di altri indici, un approccio sistematico per la valutazione della sostenibilità; ha incentivato la comunicazione tra le diverse aziende al fine di individuare quali possano essere i miglioramenti da effettuare nel settore energetico, dei rifiuti, idrologico e degli scarti [6].

Il secondo indice, il Carbon Footprint di Prodotto, è in poche parole il prodotto derivante dal calcolo di tutti i gas ad effetto serra che vengono emessi nel ciclo di vita del prodotto che va dal momento in cui si procede all’approvvigionamento delle risorse essenziali sino al suo smaltimento. Il valore finale, kg di Co2, è importante perché dà indicazione appuntodell’emissione di anidride carbonica ovvero una delle prime cause dell’attuale surriscaldamento della Terra [7].

Come riconoscere se un brand è veramente sostenibile?

Al giorno d'oggi la vasta scelta dei marchi di moda sicuramente non sta agevolando la scelta dei consumatori, ma nemmeno la distinzione tra quelli veramente sostenibili e quelli tradizionali.  Difatti, è bene sapere che, negli ultimi anni, molti marchi di moda stanno abusando del termine "sostenibilità" fino al punto di avere un effetto opposto, ovvero quello del Greenwashing (ne ho parlato qui). Greenwashing è un meccanismo creato dalle grandi marche che si presentano come sostenibili anche se non lo sono davvero.

Lato consumatori, evitare di cadere nella trappola del greenwashing non è per niente facile, ed è per questo motivo che chi è orientato alla moda sostenibile deve necessariamente conoscere gli indicatori più importanti, come appunto: 

-          Global Organic Textile Standard (GOTS): indica l’uso di materie prime naturali, maggiormente cotone organico;

-          Forest Stewardship Council (FSC):promuove il management responsabile delle foreste;

-          Craddle to Craddle: certifica un brand quando questo rispetta la qualità e la sicurezza del prodotto seguendo i dettami dell’economia circolare.

Prima di fare un acquisto risulta quindi necessari fare una piccola investigazione sulla marca che ci interessa. Meno sono reperibili le informazioni sulla filiera produttiva del marchio, e maggiormente aumenta la probabilità che si tratti di un brand poco sostenibile. Inoltre, i brand che davvero credono nei valori della moda sostenibile sono fieri del loro percorso, quindi sarà possibile verificare la loro veridicità cercando informazioni sul loro sito web (di solito nella sezione "about us" oppure "chi siamo" ci sono molti informazioni aziendali che riguardano anche la produzione). Ci sono poi anche delle applicazioni specifiche che permettono di avere informazioni dettagliate su ogni singolo prodotto oppure marchio che ci interessa. Qualche mese fa ho scoperto l'applicazione Renoon, che uno strumento che permette di verificare l'impatto ambientale di moltissimi brand di moda.

La canapa come un sostegno fondamentale per lo slow fashion

La domanda che sorge spontanea a questo punto è se la canapa tessile può invertire il trend ed accelerare il passaggio della "lenta"? Certo, si tratta di una domanda a trabocchetto, perché l'obiettivo non è quello di andare più veloce ma ti utilizzare tessuti più sostenibile ed amici dell'ambiente. La pianta di Cannabis Sativa L. come accennato qui, è stata a lungo oggetto di proibizionismo causa il suo collegamento con il principio attivo THC - per l'altro non esistente nella fibra - e quindi tutta la conoscenza della lavorazione ma anche la moda legata alla canapa tessile è stata dimenticata. A confermare però l'importanza e la sostenibilità della canapa è lo studio diEcological Footprint and wateranalysis of cotton, hemp and polyester prodotto dallo Stockholm Environment Institute che ha permesso di confrontare le caratteristiche che contraddistinguono la canapa dal cotone e dal poliestere [8]. 

La prima importante caratteristica che contraddistingue la canapa da altre coltivazione sta nel consumo idrico. Se per la lavorazione della canapa è necessario un apporto idrico davvero limitato ed anche una più piccola quantità di terra, per il cotone è tutto il contrario. La canapa, inoltre, non deve essere protetta da pesticidi chimici, fertilizzanti o diserbanti pertanto è meno probabile che il suo sviluppo possa contribuire all’inquinamento ambientale e delle falde acquifere.

La canapa, di per sé, è in grado di restituire il 70% dei nutrienti che preleva dal suolo: in generale tutti gli alberi assorbono l’anidride carbonica e rilasciano, in cambio, l’ossigeno ma, la canapa rispetto alle altre piantagioni è in grado di assorbirne una quantità davvero elevata: ogni ettaro di canapa, infatti, è capace di assorbire anche 22 tonnellate di Co2 [9].

Quelli fino ad adesso riportati sono tutti i vantaggi che si possono trarre dalla coltivazione della canapa; aspetti molto vantaggiosi riguardano però anche la stigliatura ovvero quel processo utile a separare dalla corteccia della canapa le fibre da utilizzare nell’industria tessile. Anche in questo caso l’acqua che tale processo necessita è davvero limitata; il cotone, per la stigliatura, ha bisogno di una quantità d’acqua che è quattro volte superiore a quella della canapa.

La fase di lavorazione appena menzionata, inoltre, non dev’essere supportata da sostanze e agenti chimici e tossici neppure quando i capi d’abbigliamento devono essere tinti. La canapa rispetto al cotone è presente, in natura, in più colorazioni pertanto le probabilità di dover tinteggiare i tessuti finali si abbassano considerevolmente.

La canapa, poi, per concludere, è una fibra del tutto organica e pertanto anche per il suo smaltimento non vi sono particolari difficoltà o pericoli d’inquinamento. La fibra, inoltre, è particolarmente resistente quindi i prodotti d’abbigliamento generati con la stessa possono durare anche per anni e anni senza riportare segni di usura. Tuttavia, arrivati ad un certo punto, è comunque possibile che il tessuto si danneggi, ma dal punto di vista della sostenibilità ambientale, nulla preoccupa gli ambientalisti dal momento che la canapa è un materiale biodegradabile e quindi anche compostabile e riciclabile.

Benefici degli indumenti della Canapa

Dall’altro canto, i vantaggi offerti dalla canapa alla moda sostenibile di certo non si limitano al suo impatto ambientale durante la fase di coltivazione.

Al riguardo, infatti, si deve sottolineare che questa fibra naturale permette di creare dei capi d’abbigliamento unici nel loro genere che rispettano tutti i valori portati avanti dallo slow fashion. Oltre alla sua resistenza, il tessuto di canapa ha importanti proprietà antibatteriche ed antifungine e questo rende il tessuto di canapa ideale per diversi utilizzi anche nel settore della biancheria, come per esempio negli ospedali (ne ho parlato in questo articolo - ndr).

Inoltre, il tessuto di canapa è molto traspirante e termo regolatore, in che lo rende molto fresco in estate, evitando l'accumulazione di odori stagnanti come quello del sudore. Questa proprietà termoregolare risulta interessante però anche nei periodi più invernali, soprattutto se mischiata con altre fibre naturali, in quanto permette di mantenere la temperature corporea.

Per concludere, la canapa tessile è sicuramente l’alleata numero uno per lo slow fashion che ha a cuore l’etica e la responsabilità ambientale. Non solo la coltivazione della canapa aiuta a riequilibrare l’ecosistema devastato riducendo al minimo il suo impatto ambientale di produzione, ma indossando i vestiti di canapa potremmo ridurre il nostro consumo di abbigliamento grazie alla resistenza del tessuto.

Per approfondire i 10 motivi per indossare la canapa tessile, ti consiglio di leggere questo articolo.

Referenze e approfondimenti: 

[1] New textiles economy, Ellen Macarathur Foundation

[2] Sustainable and circular textiles by 2030, European Commission

[3] Overdressed, E. Cline

[4] JUNK - Armadi Pieni, Will Media e Sky Italia

[5] Rana Plaza Collapse, Wikipedia

[6] The Higg Index, Sustainble Appareal Coalition

[7] Carbon Foodprint

[8] Ecological footprint and water analysis of cotton, hemp and polyester, SEI

[9] Carbon Storage in hemp and wood, Press release, EIHA

Foto: 

[F1] Photo by Polina Tankilevitch, Pexels

[F2] Photo by Gustavo Fring, Pexels

[F3] Photo by Sam Lion, Pexels

[F4] Photo by Anete Lusina, Pexels

[F5] Photo by Ron Lach, Pexels